Il presente e il futuro, la tradizione e l’innovazione. Saranno fianco a fianco, sullo stesso palcoscenico, per il concerto sinfonico monografico che l’Orchestra del Teatro Massimo Bellini di Catania dedica a due celeberrime pagine di Ludwig van Beethoven, sontuoso preludio alle celebrazioni del 2020 per il 250° anniversario della nascita del compositore. Un impegno particolarmente oneroso, al quale risponderà la bacchetta di grande esperienza di Günter Neuhold, apprezzata innumerevoli volte dal pubblico etneo (nel passato più recente per l’indimenticabile Salome di Strauss e ancora l’anno passato nell’ardito Concerto per pianoforte e orchestra di Al’fred Šnitke). Bacchetta tra le più blasonate del panorama internazionale, Neuhold è stato direttore artistico e musicale dei teatri di Karlsruhe, Brema e Bilbao, presenza di spicco dei più importanti festival (da Salisburgo a Dresda, da Montpellier alla Biennale di Venezia). Il suo ritorno al Bellini, questa volta, è però segnato dalla curiosità che accompagna il nome di Alberto Ferro, una tra le eccellenze dell’Istituto Musicale “Vincenzo Bellini” di Catania, dove nel 2018 ha ottenuto il diploma accademico di II livello con il massimo dei voti e la lode, allievo della prestigiosa scuola pianistica di Epifanio Comis. Nel giro degli ultimi anni, il ventiduenne pianista gelese ha sbaragliato importanti competizioni, classificandosi al secondo posto – oltre al premio della critica – al “Busoni” nel 2015 e al primo al “Beethoven” di Bonn due anni più tardi.
È dunque imperdibile l’appuntamento catanese, che lo vedrà cimentarsi con il Terzo Concerto in do minore, op. 37, del Titano di Bonn, pagina tra le più avvincenti del repertorio ottocentesco, che da qui prende idealmente l’abbrivo. Composto nei primi anni del secolo e tenuto a battesimo dallo stesso compositore al Theater an der Wien il 5 aprile del 1803 – «suonava la parte principale tutta a memoria non avendo avuto il tempo di fissarla completamente sulla carta», avrebbe raccontato il cavaliere Ignaz von Seyfried, direttore del teatro, incaricato di voltare le pagine – dà prova infatti di una scrittura sperimentale, in cui affiorano elementi del Settecento mozartiano, a partire dalla marzialità dell’esordio, che però presto approdano a un’energia tragica, dichiaratamente romantica, fondata anche su un arricchimento della componente orchestrale. Chiude il percorso beethoveniano la Settima Sinfonia in la maggiore, op. 92, tenuta a battesimo l’8 dicembre del 1813 nella Sala dell’Università di Vienna, nel corso di una serata a beneficio dei soldati feriti nella battaglia di Hanau. Travolgente – allora come adesso – fu il successo arriso al celeberrimo Allegretto, interamente replicato non solo la sera della prima, una sorta di canzone ternaria in cui la tonalità d’impianto s’inabissa nell’armonia di la minore. Ne scaturisce una vibrante preghiera, che Hector Berlioz avrebbe definito come «il miracolo della musica moderna, in cui genio e arte profondono i più potenti effetti della melodia, dell’armonia, dell’orchestrazione. Il pezzo comincia con un profondo sospiro dei legni, dopo il quale un canto sublime si eleva gradatamente sino agli accenti di una sofferenza immensa, pari a quella del profeta delle Lamentazioni.» L’enormità dell’esperienza del dolore, cui farà da contraltare la forza dionisiaca del Finale, pagina d’inarrivabile forza, vitalità e slancio.